Hereafter
Clint Eastwood aggiunge l’ennesima perla al suo percorso di regista cimentandosi con un tema forte e in genere rimosso, quello della morte o, più precisamente, quello dell’aldilà. Lo fa attraverso una sceneggiatura solida, quella di Peter Morgan (Frost/Nixon, forse tra i migliori film degli ultimi anni), imperniata su tre storie distinte che solo nel finale troveranno un punto di convergenza. Marie è una giornalista all’apice della carriera che, durante lo tsunami asiatico attraverserà un’esperienza tra la vita e la morte, Marcus è un bambino che ha perso il fratello gemello in un incidente, George (Matt Damon) un giovane operaio in grado di entrare in contatto con i morti ma che non riesce a convivere con quella che per lui è solo una maledizione. Eastwood è uno dei pochi registi contemporanei, se non l’unico, di cui si possa dire tranquillamente che ogni nuovo film girato è già un classico. Vale anche per questo lavoro che è solido, lineare pur affrontando, tra gli altri, un tema scivoloso come quello del paranormale. E’ un film che pone molte domande senza la pretesa di indicare le risposte e che in fondo è soprattutto un’ode alla vita, come sembra far capire il gemellino a Marcus: ti sorveglio ma puoi, e devi, cavartela da solo.
Piero
Invictus
La prima scena è una pennellata splendida: i ragazzi bianchi perfettamente organizzati che giocano a rugby nelle loro impeccabili divise da una parte, i neri scalcagnati che tirano calci ad un vecchio pallone dall’altra. A dividerli apparentemente solo la strada, in realtà anni di apartheid, di odio e violenza. Il Presidente del Sudafrica Nelson Mandela appena eletto capisce che la strada della riconciliazione passa proprio dal rugby, il mondiale del 1995 giocato in casa come occasione unica e irripetibile di riconciliazione nazionale. E’ un calcolo umano oltre che politico in cui coinvolge – prima scettico, poi sempre più convinto – il capitano degli Springboks Francois Pienaar (Matt Damon, molto bravo nel suo ruolo) che riuscirà a trascinare la squadra, simbolo di un paese finalmente unito, fino alla vittoria finale.
Di Clint Eastwood c’è soprattutto la maestria nel dirigere un grande film evitando di sfociare nella retorica, narrando la storia unica e irripetibile di Mandela – del suo coraggio e della capacità di perdonare ma anche della spregiudicatezza e della lungimiranza politica – ma anche la parabola sportiva di una squadra che vince contro ogni pronostico trascinata dalle motivazioni più ancora che dalla tecnica. E’ un film però soprattutto di Morgan Freeman che lo ha voluto fortemente, lo ha prodotto e che interpreta, anzi è, Nelson Mandela. Ne traccia magistralmente ogni sfumatura, il calcolo e la strategia politica, la solitudine e le debolezze proprie di ogni uomo. Un film forse imperfetto ma comunque molto emozionante.
Piero
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