Katyn
Katyn
Il 17 Settembre 1939, a seguito dello scellerato patto Ribbentrop-Molotov di spartizione della Polonia tra Unione Sovietica e Germania, l’Armata rossa invase da Est il territorio polacco (pochi giorni dopo l’invasione hitleriana da occidente). Nel 1943, nella foresta di Katyn, furono rinvenuti i corpi di migliaia di soldati polacchi, circa 15 mila, in larga misura ufficiali, tutti uccisi nello stesso modo: un solo colpo d’arma da fuoco alla nuca. La strage fu autorizzata da Stalin in persona, ma per anni, almeno fino alla Caduta del Muro di Berlino, su questa verità storica c’è stato un sostanziale silenzio. Il regista Andrzej Wajda, intimamente coinvolto vista la presenza del padre tra gli ufficiali uccisi, racconta finalmente di questa storia tenuta nascosta e quasi rimossa per lunghi anni, anche nel suo Paese. Lo fa in maniera estremamente asciutta, concreta, mescolando, soprattutto nella seconda parte del film, al racconto della Storia, le storie, complesse e a volte intersecate, delle vittime e dei loro familiari. Esemplare la storia di Anna, la sua ricerca del marito ufficiale e il suo non rassegnarsi ad accettarne la scomparsa, oppure, ancora, quella delle due sorelle che affrontano la morte dell’amato fratello in maniera opposta, una con l’ipocrisia della ricerca di una normalità di comodo e l’altra con la ferrea volontà di riaffermare la verità dei fatti. In queste storie c’è tutto: il dramma, le contraddizioni di un popolo e tutta la sua immane tragedia che lascia sgomenti. Splendida ed emblematica la scena iniziale: una moltitudine di disperati in fuga su un ponte, accerchiata da entrambi i lati dagli eserciti delle due potenze contrapposte.
“ Solo bottoni, di noi resteranno solo i bottoni.”
Piero
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